martedì 18 febbraio 2014

Alessandra Spigai - Testo critico di Maria Campitelli

E’ stupefacente il processo operativo di Alessandra Spigai. Dalla grafica, dalla fascinazione dei caratteri tipografici di legno per comporre un testo, che appartengono ad un mondo scomparso soppiantato dal progresso tecnologico -  e che le hanno ispirato dei lavori - all’improvviso sente il bisogno di dover costruire qualcosa che s’impianta nello spazio. Di manipolare la materia, di dar forma a dei corpi, a dei volti, insomma di fare scultura. Ma la cosa ancor più sorprendente  è che in questa improvvisa vocazione sente la necessità di esprimersi con modalità che si potrebbero definire tardo ottocentesche o del primo novecento Liberty. Sembra che i suoi modelli siano Vincenzo Gemito, o il più sfatto ed impressionista Medardo Rosso. In queste forme dal taglio fuori tempo - certo ognuno è libero i di scegliersi le forme che preferisce, la libertà è la piattaforma primaria dell’arte, ma ugualmente stupisce  questo involontario anacronismo - Alessandra Spigai cala dei sentimenti, delle problematiche che attraversano l’umanità di sempre, ma che  oggi si configurano con una diversa tensione. C’è una dicotomia  tra forma, meglio tra apparenza epidermica e contenuto. La prima appartiene alla storia, il secondo s’immerge nella  contemporaneità. Il tema dominante, e al tempo stesso sotteso, è la  “natività”, “matriarcale”, (attenzione natività non maternità) dove emerge la donna come procreatrice, come colei che fa nascere,  depositaria della vita cioè  e ancor sempre come espressione di un prorompente  impulso  creativo, analogo a quello artistico. La definizione “natività” comporta la sacralità,  perchè di per sè richiama la natività divina.
E nel contempo il tema si allarga all’infanzia, il frutto della procreazione, il bambino, con la sua fresca vitalità, l’innocenza che presto svanisce, quel bambino che l’artista insegue, tenta di riconoscere anche nell’adulto. E di bimbi ce n’è abbastanza in questa mostra,  teneri come “Manolin”,  o “Pin” che stranamente con un braccio gesticola nello spazio, la piccola mano tinta d’oro,  mentre “Innocenza perduta” rappresenta una bimba già contaminata dalla polvere scura del mondo, il nero che dilaga nei capelli. Ecco Alessandra Spigai fa un uso particolare dei colori sulle statue, a valenza simbolica, e questo può essere un distinguo rispetto a modelli del passato,  una libertà  conforme ad una sensibilità attuale, come anche i titoli dipinti o impressi nella statua.  E’ il caso della freschissima, direi rugiadosa, bimba di “Want chance” che guarda con sorridente curiosità sul mondo, dove il titolo scritto in oro attraversa le braccia nere, come il volto. Dunque un retaggio pittorico s’insinua a volte nel lavoro plastico che s’accampa nello spazio. Anche i caratteri di legno, della precedente esperienza, s’incastrano talvolta in un ritratto, come in “Regret”, in una sorta di sintesi di momenti espressivi e creativi diversi. Alessandra Spigai è certo attraversata da una prorompente volontà creativa, una pulsione incontenibile che deve in ogni caso uscire come nella sua opera “Terra”, quasi un geiser,  un soffio d’energia che si sprigiona dalla madre terra. E’ questa propulsione creativa, oggi calata nell’atto scultoreo, che le fa sentire quell”altissima presunzione di onnipotenza” come lei stessa afferma, magica ed appagante,  nel ricavare dalla materia, plasmandola, nuove forme/creature, nuovi segni coniugati con la vita.

(Febbraio 2014)

(P.I.)

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