martedì 10 dicembre 2013

L’astratto quasi figurativo di Alfredo Pirri

Alfredo Pirri è un importante artista italiano che vive e lavora a Roma. È intervenuto il 29 e il 30 novembre 2013 al Continental breakfast - Running time in Trieste, una sessione speciale del sesto forum Ince di Venezia per curatori d'arte contemporanea organizzato da Triestecontemporanea presso lo Studio Tommaseo, presenziando alla prima proiezione in Italia del film documentario Lo specchio degli inganni del quale è protagonista. Incontrandoci in quell'occasione ci siamo confrontati su alcuni argomenti.


Tenuta dello Scompiglio Ph. Andrea Martiradonna
Io. Presentando le tue opere fatte con le piume come quelle installate alla Tenuta dello Scompiglio hai detto che il più grosso complimento che ti è stato fatto è che tu fai dell’astratto quasi figurativo.

Alfredo. Anche al Museo di Reggio Calabria è così, nel senso che io naturalmente mi sono formato all’interno della cultura dell’astratto inteso come fonte di energia, non come forma, non come immagine, ma come forma di energia che debba per forza inserire un disagio nell’immagine. Sono convinto anche che l’astrattismo, il così detto astrattismo in pittura, sia una storia del tutto particolare che oggi noi possiamo tornare a riguardare solo se innerviamo di quella energia anche le nostre conoscenze figurative.

Io. Ma tu parli dell’arte astratta di quasi un secolo fa.


Alfredo. Sì, esatto, quella che è continuata però a esistere fino ai giorni nostri. A volte, se guardiamo delle opere o creiamo delle opere che sono astratte lo sono solo all’apparenza perché sono opere non propriamente astratte, cioè sono opere come quella di Reggio Calabria che vivono in una dimensione dinamica e addirittura mimetica con l’architettura stessa, cioè con i luoghi dell’abitare umano anche se a una scala monumentale. Quindi il lavoro di Reggio Calabria per esempio è un lavoro che si integra perfettamente nell’architettura, nasce come riflessione sull’architettura quindi è solo il linguaggio che è astratto.


Io. La riflessione sull’opera a Reggio Calabria mi riporta alla mente Niepce, cioè lo scopritore della fotografia con la foto fatta sul bitume che non è molto chiara perché la luce solare ci ha messo ore per imprimere i chiaroscuri e in più in questo momento vedo che ci sono tante operazioni artistiche che rimandano ad un disegnare con la luce.

Alfredo. Assolutamente. Tra l’altro questa è una tradizione pittorica perché sia Niepce che Nadar in effetti erano degli incisori e quindi la loro scoperta della fotografia è casuale perché l’uso dei materiali come la pece greca per esempio proviene dalla tradizione dell’incisione. Quindi c'è un travaso di esperienze continuo fra quello che è la pittura e la prima tecnologia della fotografia. E questo travaso secondo me deve continuare a esistere. Cioè non amo molto le opere puramente tecnologiche, perche non c’è questo travaso e io penso che invece la storia stessa dell’uomo e dell’arte prosegua per travasi di esperienze, in cui una esperienza si mimetizza nell’altra. E nel caso del mio lavoro la questione della figurazione della dimensione corporale si travasa nell’astrazione.


Io. Qui subentra anche il discorso del privato, dell’individuale dell’artista rispetto al pubblico.


Alfredo. Sì, l’individuale dell’artista si travasa nel collettivo.


Io. Quindi ti faccio una domanda provocatoria: l’opera d’arte, mentre tu la crei e la vedi solo tu, ha un limite senza un pubblico? Se l’opera non viene vista da nessuno rimane solo un discorso tra te e l’opera, tra soggetto autore e oggetto?


Alfredo. Sai cosa faccio tutti i giorni e non solo per quanto riguarda le mie opere ma tutto? E in particolare per il mio lavoro? Smetto di lavorare solo quando sono certo che se morissi all’improvviso quel lavoro si potrebbe considerare finito. Perché penso sempre a quello che dici e siccome io stesso mi ritengo spettatore dei miei lavori mentre li faccio, penso, che se morissi all’improvviso quella cosa comunque dovrebbe essere completa.


Io. Questo è un discorso molto interessante anche per il mondo delle performance dove l’arte è il gesto dell’artista. Secondo la mia teoria non solo chi fa la performance viene osservato ma anche chi fa la performance osserva il pubblico che fa una performance a sua volta.


Alfredo. Sì, soprattutto perché normalmente chi fa una performance si muove in perfetta sintonia con il pubblico, quindi guai se non l’osserva. Io non faccio performance ma sono convinto che il mio lavoro abbia un aspetto performativo nel senso che, l’opera rapportandosi a una dimensione spaziale luminosa, seppure sia immobile, si modifica momento per momento.


Io. È la luce che varia ed è tutto assolutamente casuale.


Alfredo. Sì, assolutamente casuale. Ma tutto il mio lavoro è un gioco continuo col caso.



(P.I.)